Dante e le sirene

A differenza di gran parte dell’apparato teratologico classico, le sirene non vengono recuperate nell’Inferno come Cerbero, Gerione o Pluto. E questo malgrado le caratteristiche delle sirene ben si prestassero ad interpretare l’eros disordinato attribuito ai peccatori, ad esempio gli “incontinenti” Francesca e Paolo, protagonisti del V canto.
Dante, invece, le ricorda nel Canto XIX del Purgatorio all’interno di un sogno da cui si risveglia, poco prima dell’alba.

Per approfondire, potete leggere il quaderno dedicato a Dante e le sirene

Leggi o salva: SCRIBERE n. 11_2023

I primi documenti della lingua latina: il Lapis Niger

la linmgua latina così come viene studiata nei licei oggi è una operazione di aSTRAZIONE: è UNA LINGUA LETTERARIA, PERCHé L’UNICA FONTE SONO, E NON POTREBBE ESSERE ALTRIMENTI, I TESTI DEGLI SCRITTORI LATINI. E’ una versione “congelarta” anche del latino scritto, poiché è stata costruita utilizzando come modello gli scrittori dell’età d’oro, quella di cui abbiamo testi in abbondanza, e che comunemente chiamiamo età di Cesare e età augustea.

Ma la lingua latina, ormai morta da tempo, un tempo era viva e, come tutte le lingue vive, era dinamica e aveva una sua evoluziine nel tempo per adattarsi alle mutate condizioni.

Ne deriva che il latino delle origini e dell’età arcaica è molto diverso, per lo meno nella forma, dal latino classico di Cicerone. Tuttavia, lo studo di questa lingua è reso complesso dalla relativa diffusione, dal numero limittato di testimonianze e, soprattutto credo, dalle ridotte tipologie di testi conservatisi sino a noi. Così coem avviene per l’etrusco, anche il latino arcaico è, infatti, conosciuto per lo più grazie ad epigrafi, deiche o brevi tetsi che non possono certo fornire una ampia casistica grammaticale e lessicale, tanto meno permettere di approcciare l’ampia flessibilità di una lingua viva.

Tuttavia, qualche informazione sul latino delle origini potrebbero fornirla, i pochi esempi rimasti, per cui vale la pena ascoltarli con attenzione.

Fra questi, un posto di rilievo occupa il Lapis Niger.

Il Lapis Niger

Il ritrovamento

Il Cippo del Foro (chiamato impropriamente anche Lapis Niger, dalla ‘pietra nera’ che sovrasta il cippo stesso) corrisponde ad un’area di base quadrata in marmo nero, che una transenna di lastre di marmo bianco separava dal resto della pavimentazione augustea in travertino. L’aspetto del monumento più che ad una tomba fa pensare ad un piccolo santuario. Comunque sia, il Cippo del Foro potrebbe essere l’unico documento pubblico romano di epoca regia.

Fu scoperto il 10 gennaio 1899 da Giacomo Boni, nel corso degli scavi della seconda pavimentazione del Foro romano; il ritrovamento fu riferito a un passo mutilo dello scrittore Sesto Pompeo Festo, grammatico latino vissuto fra i secoli II e III d. C.), che accennava ad una “pietra nera nel Comizio” (lapis niger in Comitio) indicante un luogo funesto, la tomba di Romolo o almeno il luogo dove venne ucciso.

Questo è il testo latino:

Niger lapis in comitio locum funestum significat, ut alii dicunt Romuli morti destinatum, sed non usu obvenisse ut ibi sepeliretur, sed Faustulum nutricium eius, ut alii dicunt, Hostilium avum Tulli Hostilii regis.

(Festo, De Lingua Latina 177)


Ovvero:

“Una pietra nera segna un lugo funesto, che alcuni dicono destinato alla morte di Romolo, ma non perché capitasse che vi seppellissero costui, ma il suo patrigno Faustolo, mentre altri dicono, un Ostilio avo del re Tullio Ostilio”.


Lo scavo al di sotto del pavimento in marmo nero portò alla luce un complesso monumentale molto arcaico, accessibile al di sotto con una scaletta, costituito da: una piattaforma con un altare a tre ante e a forma di U, con un basamento e un piccolo cippo fra le ante, nonché due basamenti minori su cui sono sovrapposti un cippo a tronco di cono, forse il basamento per una statua, e un cippo piramidale, quest’ultimo con la famosa iscrizione bustrofedica (un tipo di scrittura che da destra a sinistra sul primo rigo e viceversa nel rigo successivo, ad imitazione dell’aratura dei campi, a cui il nome fa riferimento).
Tutti i reperti mancano della parte superiore, compreso il cippo iscritto. La pietra è molto rovinata e in gran parte illeggibile.

L’altare ha la classica forma del basamento a doppio cuscino sovrapposto, della quale si conserva però solo lo scalino inferiore. Il tutto era situato all’aperto, come dimostrano le ossa dei sacrifici e gli ex-voto ceramici e bronzei rinvenuti sotto e attorno ai basamenti.

L’iscrizione

L’iscrizione, di difficile interpretazione, rivela trattarsi di un luogo sacro, con maledizioni per i possibili violatori.

La scrittura è, come detto più sopra, bustrofedica, in un alfabeto arcaico che lascia intravvedere la derivazione greco-etrusca (ad esempio l’uso della C per la G e della P per la R). L’irregolarità dei caratteri, piuttosto che dovuta ad imperizia, appare voluta per cui è stato suggerito che il testo, più che un’effettiva funzione informativa per i lettori, doveva utilizzare la carica magico-sacrale della scrittura per incutere timore anche negli analfabeti.

Il contenuto dell’iscrizione è il seguente:

QUOI HON… SAKROS ESED… REGEI KALATOREM… IOUXMENTA KAPIA… IOUESTOD

Ovvero, in latino classico:

QUI HUNC… SACER ESTO… REGI CALATOREM… IUMENTA CAPIAT… IUSTO

Il testo, ovviamente mutilo, è stato integrato, con buona verosimiglianza, come segue:

QUI HUNC (LOCUM VIOLAVERIT) SACER ESTO… REGI CALATOREM… IUMENTA CAPIAT… IUSTO (ovvero CHI VIOLERÀ QUESTO LUOGO SIA MALEDETTO… AL RE L’ARALDO… PRENDA IL BESTIAME… GIUSTO).

L’inizio, come visto, sembra essere una formula di maledizione; la menzione di un Kalator (verosimilmente un araldo dei sacerdoti) e del bestiame fa pensare ad un secondo avviso: l’araldo invita i passanti ad essere pronti a sciogliere gli animali aggiogati, poiché essi costituivano un cattivo auspicio per i ministri del culto, come veniamo a sapere da Cicerone:

Et quidem ille dicebat, si quando rem agere vellet, ne impediretur auspiciis, lectica operta facere iter se solere. Huic simile est, quod nos augures praecipimus, ne iuges auspicium obveniat, ut iumenta iubeant diiungere.

Cic. De divinatione II, 7

La menzione del re, invece, è stata a lungo dibattuta. Se, inizialmente, si era tentata una collocazione in età repubblicana, anche se molto remota, l’indicazione del re come ricettore del messaggio (una dedica? Di certo RECEI è un dativo) fa pensare più ad un vero e proprio monarca che non al rex sacrorum, sacerdote di età repubblicana che, dopo il 509 a. C., prese in consegna le funzioni religiose precedentemente appartenute al rex. In questo senso si orienta anche il ricorso alla sacertas. Nelle interpretazioni del passo mutilo, infatti è frequente il richiamo alle leges regiae, in particolare alla formula sacer sit o sacer esto che, come si diceva, viene individuata nel sakros esed della nostra iscrizione

Tavola 90. Domenico Comparetti, Iscrizione arcaica del Foro Romano, Firenze-Roma. Bencini, 1900, fig. a pag. 7.

La Sacertas

Come si può vedere, una degli elementi precipui di questo testo è la sua natura di monito/maledizione: chi violerà questo luogo, sarà sacro.

Cosa vuol dire che è una maledizione essere “sacer“?

Nel diritto romano arcaico, è la condizione dell’homo sacer, quello che, per aver commesso un delitto contro la divinità o la compagine dello Stato, era consacrato alla divinità. Il romano dichiarato sacro perde la sua cittadinanza e i conseguenti diritti, viene abbandonato alla vendetta degli dei ed espulso dal gruppo sociale. Non avendo diritti, gli venivano confiscati i beni (consecratio capitis et bonorum, pronunciata secondo il particolare rituale della detestatio) e poteva essere ucciso o fatto schiavo da parte di chiunque senza che questi violasse alcuna legge o dovesse temere ritorsioni o denunce.

Il funerale nell’antica Roma

I funerali, beninteso quelli dei patrones, erano, a quanto dicono le fonti, complessi e solenni, oltre che molto sfarzosi e quindi costsissimi. Molti cittadini, infatti, per assicurarsi una sepoltura degna del loro rango, si iscrivevano ai collegia funeraria (sorta di corporazioni) destinate a gestire il funus, mentre una categoria poco amata ma molto ricca di cittadini era quella dei libitinarii, ovvero gli impresari di pompe funebri. esisteva anche una versione meno “costosa” dei libitinarii, il vespillione.

Dopo la morte, il rituale prevedeva innanzitutto un tentativo rituale di risvegliare il morto: i suoi familiari, infatti, di solito le donne di famiglia ma, all’occorrenza, anche liberti e schiavi, lo chiamavano più volte gridando ad alta voce il suo nome (era la cosiddetta conclamatio). Constatata la morte definitiva in questo modo molto teatrale, era il momento di chiamare i pollinctores, i quali procedevano alla preparazione del cadavere, a lavare il corpo del defunto e cospargerlo di unguenti. Gli stessi, poi, lo vestivano con gli abiti da parata, deponendolo su un catafalco (il cosiddetto lectus funebris) nell’atrio della casa, i piedi verso la porta. Questa usanza si è conservata a lungo, anche nella cultura tradizionale delle aree contadine dell’Italia moderna, interpretata per lo più come un “invito” ad allontanarsi dalla famiglia dei vivi. I pollinctores, poi, ponevano sotto la lingua una monetina; secondo la versione più diffusa, questa moneta (o queste monete) era(no) il dazio per che il morto pagava per essere traghettato da Caronte dal regno dei vivi a quello dei morti. Se il defunto era un patrizio ed era stato in vita un magistrato, veniva anche fatto un calco del viso con la cera (non a caso chiamato imago, inis) che veniva esposto sia prima che durante il funerale. In seguito, verrà riposto nell’atrio della domus, insieme ai ritratti degli antenati.

Dopo otto giorni di esposizione del feretro in casa, all’interno dell’atrium, di solito, iniziavano le exsequiae, proclamate da un banditore. Si procedeva così al funerale vero e proprio, che era un avvenimento per tutta la cittadinanza, tanto è vero che alcuni ricercatori hanno messo in correlazione la pompa del funus, cioè la processione funebre, con il triumphum, il percorso trionfale che il condottiero vincitore seguiva in un percorso mai definito con precisione all’interno dell’Urbe. Un cerimoniere (dissignator) precedeva il corteo, cui seguiva una torma di musici e le praeficae che cantavano inni per il morto (neniae, arum); vi erano anche mimi, littori, portatori di torce. Due sono gli elementi più interessanti e bizarri del funus romano: la processione degli antenati e il mimo del morto.

La processione funebre

Il funerale di un patrizio, a meno che non fosse un homo novus, cioè il primo della sua gens a raggiungere le magistrature, era infatti caratterizzato da una singolare processione: il feretro era seguito da attori che indossavano le maschere degli antenati (imagines maiorum, anch’esse realizzate per il loro funerale e custodite, come si diceva, nell’Atrium della domus patrizia) e sfilavano con la famiglia dei vivi. La pompa, infatti, era un’occasione per riaffermare l’autorità e il potere della famiglia del morto nella comunità attraverso la rappresentazione dei suoi antenati e dell’honos della gens che questi rappresentavano. Infatti, gli attori erano vestiti con l’abito proprio della magistratura raggiunta dall’antenato, così che tutti potessero vedere la gloria della gens e del morto, che così, in uno schema teatrale, veniva accolto nella “meta-famiglia” dai suoi antenati. Accanto a questa processione, o emglio dietro al feretro, è documentato, anche e soprattutto epr gli imperatori, la presenza di un mimo/attore che riproduceva gesti e atteggiamenti del morto. Dalle fonti, in effetti, sembra anzi che questi personaggi facessero parte della familia e seguissero il pater familias in modo da acquisirne le caratteristiche movenze.

Per motivi igienici e sacrali (“hominem mortuum in urbe ne sepelito neve unto”, “che nessun morto sia seppellito o bruciato in territorio cittadino”, recita una delle leggi delle XII tavole), il corpo era portato fuori dal pomerium, lo spazio consacrato dell’Urbs, e qui veniva svolta la fase finale del rito: il rituale più solenne e ricco, usato per i patrizi, era l’incinerazione, mentre l’inumazione era riservata a poveri e schiavi. per questi ultimi, ma non solo, le sepolture erano segnalate da piccoli tumuli di pietre o terra, dalle pietre di delimitazione o da vasellame posto al di sopra della fossa; nella storia di Roma antica erano molto rare le stele funerarie. Per quanto riguarda la cremazione, il defunto veniva bruciato in un’area apposita, detta ustrinum; i resti, una volta raccolti, venivano poi riposti in un contenitore e quindi sepolti.

termine latinocorrispondente italiano
vespillio, onis
pollinctores
libitinarii
cadaver, eris
cippus,
Fortuna, ae
laudatio, onis, laudàtio funebris
elógium, ii
féretrum, i
funus, eris
funus acerbum
funus plebeium, tacitum
funus privatum
funus publicum
in cinerem redigere
inumatio, onis
pompa
becchino
assistenti del becchino
impresari funebri
cadavere
cippo
destino
discorso funebre
elogio
feretro
funerale
funerale dei bambini
funerale dei poveri
funerale privato
funerale di Stato
incenerire
inumazione
corteo funebre
I termini del funus

Ovidio e l’Ars amatoria

Nec pudor ancillas, ut quaeque erit ordine prima,
Nec tibi sit servos demeruisse pudor.
Nomine quemque suo (nulla est iactura) saluta,
Iunge tuis humiles, ambitiose, manus.
Sed tamen et servo (levis est inpensa) roganti 255
Porrige Fortunae munera parva die:
Porrige et ancillae, qua poenas luce pependit
Lusa maritali Gallica veste manus.
Fac plebem, mihi crede, tuam; sit semper in illa
Ianitor et thalami qui iacet ante fores. 260
Nec dominam iubeo pretioso munere dones:
Parva, sed e parvis callidus apta dato.
Dum bene dives ager, cum rami pondere nutant,
Adferat in calatho rustica dona puer.
Rure suburbano poteris tibi dicere missa, 265
Illa vel in Sacra sint licet empta via.
Adferat aut uvas, aut quas Amaryllis amabat++
At nunc castaneas non amat illa nuces.
Non vergognarti di conquistare, una dopo l’altra le serve,
non vergognarti di conquistare i servi.
Salutali tutti – non c’è nulla di male – col loro nome,
unisci ostentatamente alle tue le mani umili1
;
255 al servo che te li chiede offri, con poca spesa,
piccoli doni alla festa della Fortuna2
,
offrili anche alla serva il giorno che i Galli
ingannati dall’abito delle matrone, scontarono la loro pena3
.
Portati dalla tua la plebe, tra cui sempre il portinaio
260 e quello che sta di guardia alla porta del talamo4
.
Non ti consiglio di fare alla tua donna doni preziosi:
fagliene di piccoli, ma tra i piccoli sceglili astutamente5
.
Quando la campagna è ricca, e i rami oscillano per il peso,
uno schiavo le porti in un canestro i doni rustici
265 – potrai dire che te li hanno mandati dal tuo podere
suburbano, anche se li hai comprati magari sulla via Sacra6 –
porti le uve o le castagne, che Amarillide amava
e adesso non ama più7
. A

Corteggiamento al circo

Ovidio: Amore e guerra

Amore e guerra

Ogni amante è un soldato, Amore ha i suoi accampamenti,
credimi, Attico, ogni amante è un soldato.
L’età adatta alla guerra è la stessa all’amore:
è indecoroso un vecchio soldato come un amore senile.
5 Gli anni che i comandanti chiedono a un forte soldato,
li richiede al suo uomo una bella ragazza.
Ambedue vegliano e ambedue riposano sulla terra,
l’uno sorveglia la porta dell’amata, l’altro del capo;
al soldato toccano i lunghi viaggi, ma se parte l’amata

10 l’amante la seguirà con coraggio e senza limiti;
attraverserà i monti e i fiumi ingrossati
dalla tempesta, calpesterà mucchi di neve.
Prendendo il mare, non prenderà a pretesto i venti torbidi,
non richiederà stelle favorevoli a solcare le acque.
15 Chi, tranne un soldato o un amante, sopporterà il freddo
della notte, e la neve mista alla fitta pioggia?
Se l’uno è mandato a spiare il nemico,
l’altro tiene gli occhi sul rivale come un nemico.
Uno assedia le grandi città, l’altro la soglia
20 dell’amante inflessibile, l’uno spezza le torri, l’altro i battenti.
Spesso è servito assalire i nemici nel sonno,
e uccidere masse inermi a mano armata.
Così caddero le feroci schiere del tracio Reso,
e voi, cavalli, catturati, lasciaste il vostro padrone,
25 così spesso gli amanti approfittano del sonno dei mariti
e, mentre il nemico dorme, usano le loro armi.
Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;
Attice, crede mihi, militat omnis amans.
quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas.
turpe senex miles, turpe senilis amor.
quos petiere duces animos in milite forti,
hos petit in socio bella puella viro.
pervigilant ambo; terra requiescit uterque –
ille fores dominae servat, at ille ducis.
militis officium longa est via; mitte puellam,
strenuus exempto fine sequetur amans.
ibit in adversos montes duplicataque nimbo
flumina, congestas exteret ille nives,
nec freta pressurus tumidos causabitur Euros
aptaque verrendis sidera quaeret aquis.
quis nisi vel miles vel amans et frigora noctis
et denso mixtas perferet imbre nives?
mittitur infestos alter speculator in hostes;
in rivale oculos alter, ut hoste, tenet.
ille graves urbes, hic durae limen amicae
obsidet; hic portas frangit, at ille fores.
Saepe soporatos invadere profuit hostes
caedere et armata vulgus inerme manu.
sic fera Threicii ceciderunt agmina Rhesi,
et dominum capti deseruistis equi.
nempe maritorum somnis utuntur amantes,
et sua sopitis hostibus arma movent.