Il funerale nell’antica Roma

I funerali, beninteso quelli dei patrones, erano, a quanto dicono le fonti, complessi e solenni, oltre che molto sfarzosi e quindi costsissimi. Molti cittadini, infatti, per assicurarsi una sepoltura degna del loro rango, si iscrivevano ai collegia funeraria (sorta di corporazioni) destinate a gestire il funus, mentre una categoria poco amata ma molto ricca di cittadini era quella dei libitinarii, ovvero gli impresari di pompe funebri. esisteva anche una versione meno “costosa” dei libitinarii, il vespillione.

Dopo la morte, il rituale prevedeva innanzitutto un tentativo rituale di risvegliare il morto: i suoi familiari, infatti, di solito le donne di famiglia ma, all’occorrenza, anche liberti e schiavi, lo chiamavano più volte gridando ad alta voce il suo nome (era la cosiddetta conclamatio). Constatata la morte definitiva in questo modo molto teatrale, era il momento di chiamare i pollinctores, i quali procedevano alla preparazione del cadavere, a lavare il corpo del defunto e cospargerlo di unguenti. Gli stessi, poi, lo vestivano con gli abiti da parata, deponendolo su un catafalco (il cosiddetto lectus funebris) nell’atrio della casa, i piedi verso la porta. Questa usanza si è conservata a lungo, anche nella cultura tradizionale delle aree contadine dell’Italia moderna, interpretata per lo più come un “invito” ad allontanarsi dalla famiglia dei vivi. I pollinctores, poi, ponevano sotto la lingua una monetina; secondo la versione più diffusa, questa moneta (o queste monete) era(no) il dazio per che il morto pagava per essere traghettato da Caronte dal regno dei vivi a quello dei morti. Se il defunto era un patrizio ed era stato in vita un magistrato, veniva anche fatto un calco del viso con la cera (non a caso chiamato imago, inis) che veniva esposto sia prima che durante il funerale. In seguito, verrà riposto nell’atrio della domus, insieme ai ritratti degli antenati.

Dopo otto giorni di esposizione del feretro in casa, all’interno dell’atrium, di solito, iniziavano le exsequiae, proclamate da un banditore. Si procedeva così al funerale vero e proprio, che era un avvenimento per tutta la cittadinanza, tanto è vero che alcuni ricercatori hanno messo in correlazione la pompa del funus, cioè la processione funebre, con il triumphum, il percorso trionfale che il condottiero vincitore seguiva in un percorso mai definito con precisione all’interno dell’Urbe. Un cerimoniere (dissignator) precedeva il corteo, cui seguiva una torma di musici e le praeficae che cantavano inni per il morto (neniae, arum); vi erano anche mimi, littori, portatori di torce. Due sono gli elementi più interessanti e bizarri del funus romano: la processione degli antenati e il mimo del morto.

La processione funebre

Il funerale di un patrizio, a meno che non fosse un homo novus, cioè il primo della sua gens a raggiungere le magistrature, era infatti caratterizzato da una singolare processione: il feretro era seguito da attori che indossavano le maschere degli antenati (imagines maiorum, anch’esse realizzate per il loro funerale e custodite, come si diceva, nell’Atrium della domus patrizia) e sfilavano con la famiglia dei vivi. La pompa, infatti, era un’occasione per riaffermare l’autorità e il potere della famiglia del morto nella comunità attraverso la rappresentazione dei suoi antenati e dell’honos della gens che questi rappresentavano. Infatti, gli attori erano vestiti con l’abito proprio della magistratura raggiunta dall’antenato, così che tutti potessero vedere la gloria della gens e del morto, che così, in uno schema teatrale, veniva accolto nella “meta-famiglia” dai suoi antenati. Accanto a questa processione, o emglio dietro al feretro, è documentato, anche e soprattutto epr gli imperatori, la presenza di un mimo/attore che riproduceva gesti e atteggiamenti del morto. Dalle fonti, in effetti, sembra anzi che questi personaggi facessero parte della familia e seguissero il pater familias in modo da acquisirne le caratteristiche movenze.

Per motivi igienici e sacrali (“hominem mortuum in urbe ne sepelito neve unto”, “che nessun morto sia seppellito o bruciato in territorio cittadino”, recita una delle leggi delle XII tavole), il corpo era portato fuori dal pomerium, lo spazio consacrato dell’Urbs, e qui veniva svolta la fase finale del rito: il rituale più solenne e ricco, usato per i patrizi, era l’incinerazione, mentre l’inumazione era riservata a poveri e schiavi. per questi ultimi, ma non solo, le sepolture erano segnalate da piccoli tumuli di pietre o terra, dalle pietre di delimitazione o da vasellame posto al di sopra della fossa; nella storia di Roma antica erano molto rare le stele funerarie. Per quanto riguarda la cremazione, il defunto veniva bruciato in un’area apposita, detta ustrinum; i resti, una volta raccolti, venivano poi riposti in un contenitore e quindi sepolti.

termine latinocorrispondente italiano
vespillio, onis
pollinctores
libitinarii
cadaver, eris
cippus,
Fortuna, ae
laudatio, onis, laudàtio funebris
elógium, ii
féretrum, i
funus, eris
funus acerbum
funus plebeium, tacitum
funus privatum
funus publicum
in cinerem redigere
inumatio, onis
pompa
becchino
assistenti del becchino
impresari funebri
cadavere
cippo
destino
discorso funebre
elogio
feretro
funerale
funerale dei bambini
funerale dei poveri
funerale privato
funerale di Stato
incenerire
inumazione
corteo funebre
I termini del funus

avidità e ambizione (De Catilinae coniuratione, 10)

1 Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago, aemula imperi Romani, ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. 2 Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. 3 Igitur primo imperi, deinde pecuniae cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. 4 Namque avaritia fidem, probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare magisque voltum quam ingenium bonum habere. 5 Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post, ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum. Ma quando la repubblica si sviluppò per mezzo del lavoro e della giustizia, quando i grandi re furono sottomessi con la guerra, quando le nazioni barbare e i vasti popoli furono sottomessi con la violenza, quando la rivale Cartagine dell’impero Romano fu rasa al suolo, quando i Romani si erano estesi su tutti i mari e su tutte le terre, la sorte iniziò a diventare malvagia e a mutare ogni cosa.
Coloro che avevano tollerato le fatiche, i pericoli, i dubbi e le situazioni difficili, a questi l’ozio e le ricchezze, desiderabili in altre circostanze, divennero causa di rovina.
Dunque per la prima volta nacque il desiderio di ricchezza e di potere: questi furono l’origine di tutti i mali.
Infatti l’avarizia sostituì la fede, l’onestà e ele altre virtù; al posto di queste l’avarizia insegno ad avere la superbia, la crudeltà, la negligenza verso gli dei e tutti i vizi.
L’ambizione rese molti mortali portatoti di falso, permise di avere una cosa chiusa in petto, un’altra mostrata sulla lingua (di dire parole diverse da quelle che si pensavano), di stimare l’amicizia e l’inamicizia non per i comportamenti ma per i comodi e di avere più il volto che l’animo onesto.
Questi all’inizio crebbero a poco a poco, talvolta erano puniti; dopo dopo che il contagio si diffuse come una pestilenza nella città, la città si trasformò, l’impero divenne da giustissimo e ottimo a crudele e intollerabile.

domiti, subacti: participi passati (congiunti) in funzione temporale (dopo essere stati…)

Incipit Bellum Iugurthinum

[5] Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est; quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. Sed prius quam huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam, quo ad cognoscendum omnia illustria magis magisque in aperto sint. Bello Punico secundo, quo dux Carthaginiensium Hannibal post magnitudinem nominis Romani Italiae opes maxime attriuerat, Masinissa rex Numidarum in amicitiam receptus a P. Scipione, cui postea Africano cognomen ex virtute fuit, multa et praeclara rei militaris facinora fecerat. Ob quae victis Carthaginiensibus et capto Syphace, cuius in Africa magnum atque late imperium valuit, populus Romanus, quascumque urbis et agros manu ceperat, regi dono dedit. Igitur amicitia Masinissae bona atque honesta nobis permansit. Sed imperi vitaeque eius finis idem fuit. Dein Micipsa filius regnum solus obtinuit Mastanabale et Gulussa fratribus morbo absumptis. Is Adherbalem et Hiempsalem ex sese genuit Iugurthamque filium Mastanabalis fratris, quem Masinissa, quod ortus ex concubina erat, privatum dereliquerat, eodem cultu quo liberos suos domi habuit. V 1 Intendo narrare la guerra combattuta dal popolo romano contro il re dei Numidi Giugurta; in primo luogo perché essa fu lunga, sanguinosa e dall’esito incerto; poi perché allora per la prima volta si fece fronte all’arroganza dei nobili. 2 Questo conflitto, che sconvolse leggi umane e divine, giunse a tale follia, che soltanto la guerra e la devastazione dell’Italia posero fine alle discordie civili. 3 Ma prima di iniziare questa narrazione, mi rifarò un po’ indietro, perché il complesso degli avvenimenti risulti più chiaro e comprensibile. 4 Nella seconda guerra punica, in cui il comandante cartaginese Annibale aveva logorato più di ogni altro le forze italiche da quando si era imposta la grandezza del nome di Roma, il re di Numidia Massinissa, riconosciuto nostro alleato da quel Publio Scipione che fu poi detto l’Africano per il suo valore, si era distinto in molte e gloriose azioni di guerra. Perciò, quando furono vinti i Cartaginesi e fu fatto prigioniero Siface, signore in Africa di un vasto e potente impero, il popolo romano fece dono al re di tutte le città e le terre da lui conquistate. 5 Da allora Massinissa fu per noi sicuro e fedele alleato, ma con la sua vita finì anche il suo impero. 6 In seguito, regnò da solo suo figlio Micipsa, poiché erano morti di malattia i suoi fratelli Mastanabale e Gulussa. 7 Egli ebbe due figli, Aderbale e Iempsale, e accolse in casa, educandolo come i propri figli, il figlio del fratello Mastanabale, Giugurta, che Massinissa aveva escluso dalla successione perché nato da una concubina.

Bellum scripturus sum: perifrastica attiva, con funzione intenzionale (sto per fare nel senso ho intenzione di fare)
gerere bellum: fare la guerra; gero è usato qui nel regno di mantenere uno stato di guerra
varia: è usato qui nel significato di qualcosa che si alterna, ondeggia, non è sicura. E’ ovviamente uno slittamento di senso, dallo scontro alla vittoria, nel segno della sallustiana variatio

Tacito e i costumi dei Romani

Tacito e i costumi dei Romani

[19] Ergo saepta pudicitia agunt, nullis spectaculorum inlecebris, nullis conviviorum inritationibus corruptae. Litterarum secreta viri pariter ac feminae ignorant. Paucissima in tam numerosa gente adulteria, quorum poena praesens et maritis permissa: abscisis crinibus nudatam coram propinquis expellit domo maritus ac per omnem vicum verbere agit; publicatae enim pudicitiae nulla venia: non forma, non aetate, non opibus maritum invenerit. Nemo enim illic vitia ridet, nec corrumpere et corrumpi saeculum vocatur. Melius quidem adhuc eae civitates, in quibus tantum virgines nubunt et eum spe votoque uxoris semel transigitur. Sic unum accipiunt maritum quo modo unum corpus unamque vitam, ne ulla cogitatio ultra, ne longior cupiditas, ne tamquam maritum, sed tamquam matrimonium ament. Numerum liberorum finire aut quemquam ex adgnatis necare flagitium habetur, plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges.
19. Vivono dunque in riservata pudicizia, non corrotte da seduzioni di spettacoli o da eccitamenti conviviali. Uomini e donne ignorano egualmente i segreti delle lettere. Rarissimi, tra gente così numerosa, gli adulterii, la cui punizione è immediata e affidata al marito: questi le taglia i capelli, la denuda e, alla presenza dei parenti, la caccia di casa e la incalza a frustate per tutto il villaggio. Non esiste perdono per la donna disonorata: non le varranno bellezza, giovinezza, ricchezza, per trovare un marito. Perché lì i vizi non fanno sorridere e il corrompere e l’essere corrotti non si chiama moda. Ancora più austere sono le trib? in cui solo le vergini si sposano e la speranza e l’attesa del matrimonio si appagano una volta sola. Un solo marito ricevono così come hanno un solo corpo e una sola vita, perché il loro pensiero non vada oltre e non si prolunghi il desiderio e perché amino non tanto il marito, bensì il matrimonio. Limitare il numero dei figli o ucciderne qualcuno dopo il primogenito è considerata colpa infamante e lì hanno più valore i buoni costumi che non altrove le buone leggi.
[20]

In omni domo nudi ac sordidi in hos artus, in haec corpora, quae miramur, excrescunt. Sua quemque mater uberibus alit, nec ancillis ac nutricibus delegantur. Dominum ac servum nullis educationis deliciis dignoscas: inter eadem pecora, in eadem humo degunt, donec aetas separet ingenuos, virtus adgnoscat. Sera iuvenum venus, eoque inexhausta pubertas. Nec virgines festinantur; eadem iuventa, similis proceritas: pares validaeque miscentur, ac robora parentum liberi referunt. Sororum filiis idem apud avunculum qui ad patrem honor. Quidam sanctiorem artioremque hunc nexum sanguinis arbitrantur et in accipiendis obsidibus magis exigunt, tamquam et animum firmius et domum latius teneant. Heredes tamen successoresque sui cuique liberi, et nullum testamentum. Si liberi non sunt, proximus gradus in possessione fratres, patrui, avunculi. Quanto plus propinquorum, quanto maior adfinium numerus, tanto gratiosior senectus; nec ulla orbitatis pretia.

20.

In ogni casa crescono nudi e sporchi, per poi svilupparsi in quelle membra e in quei corpi che tanto ammiriamo. Ogni madre allatta al seno i propri figli e non li affida ad ancelle o nutrici. Impossibile distinguere il padrone o il servo da cure particolari nell’educazione. Vivono tra il medesimo bestiame e sullo stesso terreno, finché l’età separa i giovani nati liberi e il valore li fa conoscere tali. I rapporti sessuali non sono precoci e quindi la loro virilità è inesauribile. Non c’è fretta di far sposare le giovani; identico ai maschi è il vigore giovanile, simile la statura: si maritano quando hanno prestanza e robustezza pari al loro compagno e i figli rinnovano la forza dei genitori. Lo zio materno tiene nella stessa considerazione di un padre i figli delle sorelle. Certe tribù privilegiano questo legame di sangue e, quando ricevono ostaggi, lo preferiscono, perché, secondo loro, i nipoti impegnano più in profondo gli affetti e in modo più esteso la famiglia. Gli eredi dei beni e i successori sono però i figli che ciascuno ha e non si fanno testamenti. In mancanza di figli, subentrano, in ordine di successione, i fratelli, gli zii paterni e gli zii materni. Più numerosi sono i parenti di sangue e acquisiti, più onorata è la vecchiaia; e a non aver eredi non c’è vantaggio alcuno.
[33] Iuxta Tencteros Bructeri olim occurrebant: nunc Chamavos et Angrivarios inmigrasse narratur, pulsis Bructeris ac penitus excisis vicinarum consensu nationum, seu superbiae odio seu praedae dulcedine seu favore quodam erga nos deorum; nam ne spectaculo quidem proelii invidere. Super sexaginta milia non armis telisque Romanis, sed, quod magnificentius est, oblectationi oculisque ceciderunt. Maneat, quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam.
33. Vicini ai Tencteri si incontravano un tempo i Brutteri. Ora, a quanto si racconta, sono immigrati in quelle terre i Camavi e gli Angrivari, una volta cacciati e pressocché sterminati i Brutteri da una lega di trib? vicine, mosse da odio per loro arroganza o dall’attrattiva della preda o da un qualche favore divino nei nostri confronti; infatti non ci hanno neanche privato dello spettacolo della battaglia. Ne caddero più di sessantamila, non in virtù delle armi romane ma – cosa ancora più splendida – per diletto dei nostri occhi. E prego che così continuino in quei popoli, se non l’amore per noi, almeno l’odio fra loro, dal momento che, ora che si profila un minaccioso destino sull’impero, ormai la fortuna nulla di meglio può accordarci che la discordia fra i nemici.

Bio e opere di Tacito
Monografia su Tacito
Una lettura della Germania

Sacer

Homo sacer è un’espressione latina che, tradotta letteralmente in italiano significa uomo sacro, cioè uomo spettante al giudizio degli dei.

Indica una sorta di pena religiosa (sacertà) comminata a colui che agiva in modo tale da mettere in pericolo la pax deorum, ossia i rapporti di amicizia tra la collettività e gli dei, i quali garantivano la pace e la prosperità della civitas. Incrinare tale rapporto “sacro” tra società e dei significava porre in pericolo non solo la vita dei singoli coinvolti, ma addirittura la stessa sopravvivenza di Roma.

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I Fasti e Ovidio

Cosa sono i Fasti
I dies fasti in lingua latina, erano i giorni dell’anno in cui, nell’antica Roma, era possibile trattare gli affari pubblici e privati; ad essi erano contrapposti i giorni nefasti, dies nefasti in latino, durante i quali ci si doveva astenere dal trattare gli affari. Nel tempo il termine assunse il significato di calendario.

Introduzione ai Fasti

I Fasti di Ovidio
I Fasti sono una specie di calendario poetico, in distici elegiaci, delle feste e dei riti romani, distribuiti mese per mese e analizzati nelle loro origini: è un omaggio consapevole al programma augusteo di recupero dei valori della religione e delle tradizioni avite. I libri composti riguardano i primi sei mesi dell’anno ed elencano i vari giorni secondo il nuovo calendario giuliano, con le loro feste religiose e le varie ricorrenze, spiegandone le origini, l’etimologia, gli usi e i riti corrispondenti.
L’autore si era proposto di indagare e rivisitare tutti i riti, le festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell’uomo romano, che, al suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l’esatta origine o valenza.Sono esposti anche i miti riguardanti le divinità prettamente romane, quali Giano, Flora e Carmenta, e le costellazioni caratteristiche di ogni mese. Ovidio inserisce vivaci episodi narrativi e descrittivi, legati alle ricorrenze e alle costellazioni e numerosi elogi ad Augusto e ai suoi familiari. L’autore si riallaccia alla tradizione della poesia eziologica di Callimaco, autore degli Àitia (Le cause), e fa sfoggio di erudizione antiquaria, dedotta da Varrone, Verrio Flacco, Igino e Tito Livio. Non portò a termine il progetto dei 12 libri preventivati, forse perché distolto dalle vicende dolorose dell’esilio o perché il carattere religioso e nazionalistico-celebrativo dell’opera si rivelò sostanzialmente estraneo alla sua più autentica ispirazione.
Ogni libro tratta di un preciso mese e così sono note le feste e i riti sacri da gennaio a giugno. Il primo libro doveva presentare una dedica ad Augusto. Quest’ultima, ora spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell’esilio di Tomi, l’attuale Costanza, in Romania) con una al nipotastro di Ottaviano stesso, Germanico.

Il brano (Ov. Fasti, V, 620-660)

Tum quoque priscorum Virgo simulacra virorum
mittere roboreo scirpea ponte solet.
corpora post decies senos qui credidit annos
missa neci, sceleris crimine damnat avos.
fama vetus, tum cum Saturnia terra vocata est, 625
talia fatidici dicta fuisse Iovis:
‘falcifero libata seni duo corpora gentis
mittite, quae Tuscis excipiantur aquis’;
donec in haec venit Tirynthius arva, quotannis
tristia Leucadio sacra peracta modo; 630
illum stramineos in aquam misisse Quirites,
Herculis exemplo corpora falsa iaci.
pars putat, ut ferrent iuvenes suffragia soli,
pontibus infirmos praecipitasse senes.
Thybri, doce verum: tua ripa vetustior Urbe est; 635
principium ritus tu bene nosse potes.
Thybris harundiferum medio caput extulit alveo
raucaque dimovit talibus ora sonis:
‘haec loca desertas vidi sine moenibus herbas:
pascebat sparsas utraque ripa boves, 640
et, quem nunc gentes Tiberim noruntque timentque,
tunc etiam pecori despiciendus eram.
Arcadis Euandri nomen tibi saepe refertur:
ille meas remis advena torsit aquas.
venit et Alcides, turba comitatus Achiva: 645
Albula, si memini, tunc mihi nomen erat.
excipit hospitio iuvenem Pallantius heros,
et tandem Caco debita poena venit.
victor abit, secumque boves, Erytheida praedam,
abstrahit; at comites longius ire negant. 650
magnaque pars horum desertis venerat Argis:
montibus his ponunt spemque laremque suum.
saepe tamen patriae dulci tanguntur amore,
atque aliquis moriens hoc breve mandat opus:
“mittite me in Tiberim, Tiberinis vectus ut undis 655
litus ad Inachium pulvis inanis eam.”
displicet heredi mandati cura sepulcri:
mortuus Ausonia conditur hospes humo;
scirpea pro domino Tiberi iactatur imago,
ut repetat Graias per freta longa domos.’
Allora la vestale suole anche gettare dal ponte di quercia fantocci di giunco di uomini vecchi. Chi credette che corpi gettati di oltre sessant’anni venivano uccisi, accusa gli avi della colpa di malvagità. Antica tradizione, allora quando la terra fu chiamata Saturnia,[625] che tali parole del fatidico Giove ci siano state: “Gettate due corpi della gente offerti al vecchio portatore di falce, che siano accolti nelle acque della Toscana”; finchè il Tirinzio venne in questi campi, ogni anno l’atroce rito fu compiuto secondo il modo di Leucade;[630] che quello avesse gettato in acqua fantocci di paglia come Quiriti, che falsi corpi sono lanciati secondo l’esempio di Ercole. Una parte ritiene, che i giovani lanciassero dai ponti i vecchi malati per portare da soli i voti . O Tevere, rivela la verità: la tua riva è più antica dell’Urbe; [635] tu puoi conoscere bene il principio del rito. Il Tevere sollevò dall’alveo il capo cinto di canne e la roca bocca si mosse con tali parole: “Vidi questi luoghi campi deserti e senza mura: l’una e l’altra riva nutriva buoi sparsi, [640] il Tevere che ora i popoli conoscono e temono, allora era da disprezzarsi anche per il gregge. Spesso è citato il nome dell’arcade Evandro: quello straniero rovesciò con i remi le mie acque. Venne anche Alcide, accompagnato dalla schiera Achea:[645] Albula, se ricordo, allora era il mio nome: l’eroe Pallanteo accolse in ospitalità il giovane, e infine per Caco venne la giusta pena. Partì vittorioso, e portò con sé i buoi, la preda di Eritea; ma i compagni rifiutano di andare più lontano. [650] La maggior parte di loro era venuta da Argo abbandonata: pongono su questi collila speranza e il loro Lare. Tuttavia spesso sono toccati dal dolce amore della patria, e qualcuno morendo manda questo breve incarico: “Gettatemi nel Tevere, portato dalle onde Tiberine [655] che io vana cenere vada verso il lido Inachio”. La cura della sepoltura richiesta dispiace all’erede: l’ospite defunto è seppellito nella terra Ausonia; nel Tevere è gettata una figura di giunco invece del signore, affinchè raggiunga le dimore greche attraverso lunghe correnti”. (trad, da studenti.it)

Come si vede, il brano si riferisce ad una peraltro misteriosa processione in cui la (le) Vestale (i) getta(no) dal ponte Sublicio, il ponte più antico di Roma, interamente realizzato in legno, dei fatocci fatti di paglia o giunco (simulacra virorum (…) roboreo scirpea). Questo rito è collegato ad una reminiscenza antichissima, la frase “sexuagenarios de ponte“, presnete anche in Varrone, e che Ovidio non interpreta, riprotando invece le differenti versioni, una dopo l’altra.
Ma attenzione. L’ultima è riportata in prima persona dal fiume Tevere, che testimonia sulla sua veridicità, per cui riteniamo che il poeta marsico abbia organizzato le tre storie dalla più incredibile alla più credibile.
Versione 1: Giove ordina di gettare in sacrificio due anziani fino a quando giunse Eracle (l’eroe tirinzio) ad interrompere la tradizione (Leucade è un’isola ionia citata da Omero da cui, secondo la leggenda, si gettò la poetessa Saffo), sostituendo i corpi con fantocci.
Versione 2: i giovani romani lanciavano dal ponte gli anziani per seguire il voto [finché un giovane si rifiutò di farlo e, scoperto, riuscì a suscitare lo sdegno dei Romani che procedettero a a sostituire, sul suo esempio, fantocci agli anziani, questa parte della leggenda non è accennata da Ovidio].
Versione 3 [narrata direttamente dal tevere, allora chiamato Albula]: quando Ercole ripartì, i compagni non vollero proseguire, stanchi, e rimasero nel Lazio. Poi, prossimi alla loro morte, spinti dalla nostaglia, avrebbero chiesto di essere gettati nel fiume che li avrebbe riportati al mare e alle loro terre d’origine ( litus ad Inachium pulvis inanis eam; inàchio è aggettivo di Inaco, fiume dell’Arcadia, per estensione l’Arcadia stessa) ma i figli, incapaci di separarsi dai genitori, tumularono le salme e lanciarono al loro posto (pro domino iactatur) dei fantocci (scirpea imago).

Link:
Il testo in latino del V libro

Catilina visto da Sallustio

Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo parvoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuère, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator; alieni adpetens, sui profusus; ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei pubblicae capiundae, neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et coscientia scelerum, quae utraque is artibus auxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.
Res ipsa hortari videtur, quoniam de moribus civitatis tempus admonuit, supra repetere ac paucis instituta maiorum domi militiaeque, quomodo rem publicam habuerint quantamque relinquerint, ut, paulatim inmutata, ex pulcherruma pessuma ac flagitiosissuma facta sit, disserere.
Lucio Catilina nato da nobile stirpe, ebbe grande vigore intellettuale e fisico, ma un’indole malvaggia e perversa. Di questo dalla adolescenza fu compiacente (si compiaque) di rapine, guerre civili, uccisioni, discordie civili, tra le quali visse la sua giovinezza. Il corpo era tollerante del digiuno, del freddo e della veglia al di là di ogni credere. L’animo era audace, scaltro, mutevole, delle cui cose si compiaceva (di essere) simulatore e dissimulatore; bramoso dell’ altrui, prodigo del suo; ardente in cupidigia; abbasatnza loquace, poco assennato. Il suo grande spirito, incredibilmente, desiderava sempre altro. Dopo la tirannide di L. Silla, lo aveva invaso una brama immensa di impadronirsi dello stato; ne si dava alcun pensiero del modo con cui conseguire questo scopo, purché si assicurasse un potere assoluto. Il suo animo fiero era ogni giorno di più, agitato dalla scarsità del patrimonio, e dalla coscienza dei suoi crimini che, l’una e l’altra, egli aveva accresciuto con la pratica dei vizi sopra ricordati. lo incoraggiavano inoltre i costumi corrotti della città, che ospitavanodue mali pessimi e opposti fra loro: il lusso e la cupidigia.
Poichè l’occasione mi ha richiamato a mente i costumi della città, l’argomento stesso perchè mi inciti a risalire indietro ai pochi ordinamentidegli uomini e degli antenati in pace ed in guerra, come essi abbiano governato lo Stato e quanto grande l’abbiano lasciato e come, a poco, a poco cambiatosi, da nobilissimo e virtuosissimo sia divenuto pessimo e viziosissimo (pieno di vizi).

Sallustio e le cause della crisi di Roma

Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est; quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. Sed prius quam huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam, quo ad cognoscendum omnia illustria magis magisque in aperto sint. Bello Punico secundo, quo dux Carthaginiensium Hannibal post magnitudinem nominis Romani Italiae opes maxime attriuerat, Masinissa rex Numidarum in amicitiam receptus a P. Scipione, cui postea Africano cognomen ex virtute fuit, multa et praeclara rei militaris facinora fecerat. V 1 Intendo narrare la guerra combattuta dal popolo romano contro il re dei Numidi Giugurta; in primo luogo perché essa fu lunga, sanguinosa e dall’esito incerto; poi perché allora per la prima volta si fece fronte all’arroganza dei nobili. 2 Questo conflitto, che sconvolse leggi umane e divine, giunse a tale follia, che soltanto la guerra e la devastazione dell’Italia posero fine alle discordie civili. 3 Ma prima di iniziare questa narrazione, mi rifarò un po’ indietro, perché il complesso degli avvenimenti risulti pi? chiaro e comprensibile. 4 Nella seconda guerra punica, in cui il comandante cartaginese Annibale aveva logorato più di ogni altro le forze italiche da quando si era imposta la grandezza del nome di Roma, il re di Numidia Massinissa, riconosciuto nostro alleato da quel Publio Scipione che fu poi detto l’Africano per il suo valore, si era distinto in molte e gloriose azioni di guerra.

Dopo una veloce introduzione (capitolo 5) sulla scelta dell’argomento (sempre con il “taglio” monografico dell’opera precedente), Sallustio apre il Bellum Iugurthinum con una descrizione degli eventi precedenti allo scoppio vero e proprio delle ostilità (capitoli 6-16, che coprono gli eventi che vanno dal 120 al 117 a.C.). La Numidia era stata alleata di Roma dai tempi della seconda guerra punica (218-202 a.C.), quando Massinissa si era schierato apertamente contro Cartagine durante la campagna di Scipione in Africa 1. Micipsa, successore di Massinissa, aveva due figli, Aderbale e Iempsale. Insieme a questi aveva educato nella sua reggia anche il nipote Giugurta, figlio di suo fratello Mastanabale. Giugurta, dotato di molte qualità, si guadagna ben presto le simpatie del popolo; Micipsa, temendo per la successione al trono dei figli, manda il nipote a combattere al fianco di Scipione Emiliano nella guerra di Numanzia 2, sperando nella sua morte in combattimento.

Ma le cose vanno diversamente. Giugurta viene apprezzato per le sue qualità dallo stesso Scipione, e il giovane numida scopre pure il carattere corrotto della nobiltà romana, facendosi l’idea che “Romae omnia venalia sunt” 3. Vedendo vicina la morte, Micipsa, non potendo far niente contro la popolarità di Giugurta, decide di dividere in parti uguali il regno tra i due figli e il nipote. Ma Giugurta disattende subito il patto e uccide Iempsale, mentre Aderbale, sconfitto in battaglia, fugge a Roma cercando l’appoggio del senato romano. Roma si pone allora come paciere tra i due re rivali. I problemi sorgono quando gli emissari del senato, corrotti da Giugurta, favoriscono il nipote di Micipsa in ogni modo