avidità e ambizione (De Catilinae coniuratione, 10)

1 Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago, aemula imperi Romani, ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. 2 Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. 3 Igitur primo imperi, deinde pecuniae cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. 4 Namque avaritia fidem, probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare magisque voltum quam ingenium bonum habere. 5 Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post, ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum. Ma quando la repubblica si sviluppò per mezzo del lavoro e della giustizia, quando i grandi re furono sottomessi con la guerra, quando le nazioni barbare e i vasti popoli furono sottomessi con la violenza, quando la rivale Cartagine dell’impero Romano fu rasa al suolo, quando i Romani si erano estesi su tutti i mari e su tutte le terre, la sorte iniziò a diventare malvagia e a mutare ogni cosa.
Coloro che avevano tollerato le fatiche, i pericoli, i dubbi e le situazioni difficili, a questi l’ozio e le ricchezze, desiderabili in altre circostanze, divennero causa di rovina.
Dunque per la prima volta nacque il desiderio di ricchezza e di potere: questi furono l’origine di tutti i mali.
Infatti l’avarizia sostituì la fede, l’onestà e ele altre virtù; al posto di queste l’avarizia insegno ad avere la superbia, la crudeltà, la negligenza verso gli dei e tutti i vizi.
L’ambizione rese molti mortali portatoti di falso, permise di avere una cosa chiusa in petto, un’altra mostrata sulla lingua (di dire parole diverse da quelle che si pensavano), di stimare l’amicizia e l’inamicizia non per i comportamenti ma per i comodi e di avere più il volto che l’animo onesto.
Questi all’inizio crebbero a poco a poco, talvolta erano puniti; dopo dopo che il contagio si diffuse come una pestilenza nella città, la città si trasformò, l’impero divenne da giustissimo e ottimo a crudele e intollerabile.

domiti, subacti: participi passati (congiunti) in funzione temporale (dopo essere stati…)

Incipit Bellum Iugurthinum

[5] Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est; quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. Sed prius quam huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam, quo ad cognoscendum omnia illustria magis magisque in aperto sint. Bello Punico secundo, quo dux Carthaginiensium Hannibal post magnitudinem nominis Romani Italiae opes maxime attriuerat, Masinissa rex Numidarum in amicitiam receptus a P. Scipione, cui postea Africano cognomen ex virtute fuit, multa et praeclara rei militaris facinora fecerat. Ob quae victis Carthaginiensibus et capto Syphace, cuius in Africa magnum atque late imperium valuit, populus Romanus, quascumque urbis et agros manu ceperat, regi dono dedit. Igitur amicitia Masinissae bona atque honesta nobis permansit. Sed imperi vitaeque eius finis idem fuit. Dein Micipsa filius regnum solus obtinuit Mastanabale et Gulussa fratribus morbo absumptis. Is Adherbalem et Hiempsalem ex sese genuit Iugurthamque filium Mastanabalis fratris, quem Masinissa, quod ortus ex concubina erat, privatum dereliquerat, eodem cultu quo liberos suos domi habuit. V 1 Intendo narrare la guerra combattuta dal popolo romano contro il re dei Numidi Giugurta; in primo luogo perché essa fu lunga, sanguinosa e dall’esito incerto; poi perché allora per la prima volta si fece fronte all’arroganza dei nobili. 2 Questo conflitto, che sconvolse leggi umane e divine, giunse a tale follia, che soltanto la guerra e la devastazione dell’Italia posero fine alle discordie civili. 3 Ma prima di iniziare questa narrazione, mi rifarò un po’ indietro, perché il complesso degli avvenimenti risulti più chiaro e comprensibile. 4 Nella seconda guerra punica, in cui il comandante cartaginese Annibale aveva logorato più di ogni altro le forze italiche da quando si era imposta la grandezza del nome di Roma, il re di Numidia Massinissa, riconosciuto nostro alleato da quel Publio Scipione che fu poi detto l’Africano per il suo valore, si era distinto in molte e gloriose azioni di guerra. Perciò, quando furono vinti i Cartaginesi e fu fatto prigioniero Siface, signore in Africa di un vasto e potente impero, il popolo romano fece dono al re di tutte le città e le terre da lui conquistate. 5 Da allora Massinissa fu per noi sicuro e fedele alleato, ma con la sua vita finì anche il suo impero. 6 In seguito, regnò da solo suo figlio Micipsa, poiché erano morti di malattia i suoi fratelli Mastanabale e Gulussa. 7 Egli ebbe due figli, Aderbale e Iempsale, e accolse in casa, educandolo come i propri figli, il figlio del fratello Mastanabale, Giugurta, che Massinissa aveva escluso dalla successione perché nato da una concubina.

Bellum scripturus sum: perifrastica attiva, con funzione intenzionale (sto per fare nel senso ho intenzione di fare)
gerere bellum: fare la guerra; gero è usato qui nel regno di mantenere uno stato di guerra
varia: è usato qui nel significato di qualcosa che si alterna, ondeggia, non è sicura. E’ ovviamente uno slittamento di senso, dallo scontro alla vittoria, nel segno della sallustiana variatio

Cesare e la Britannia

[12] 1 Britanniae pars interior ab eis incolitur quos natos in insula ipsi memoria proditum dicunt, 2 maritima ab eis, qui praedae ac belli inferendi causa ex Belgio transierunt (qui omnes fere eis nominibus civitatum appellantur, quibus orti ex civitatibus eo pervenerunt) et bello illato ibi permanserunt atque agros colere coeperunt. 3 Hominum est infinita multitudo creberrimaque aedificia fere Gallicis consimilia, pecorum magnus numerus. 4 Utuntur aut aere aut nummo aureo aut taleis ferreis ad certum pondus examinatis pro nummo. 5 Nascitur ibi plumbum album in mediterraneis regionibus, in maritimis ferrum, sed eius exigua est copia; aere utuntur importato. Materia cuiusque generis ut in Gallia est, praeter fagum atque abietem. 6 Leporem et gallinam et anserem gustare fas non putant; haec tamen alunt animi voluptatisque causa. Loca sunt temperatiora quam in Gallia, remissioribus frigoribus. [XII] Nella parte interna della Britannia gli abitanti, secondo quanto essi stessidicono per remota memoria, sono autoctoni, mentre nelle regioni costiere vivonogenti venute dal Belgio a scopo di bottino e di guerra e che, dopo la guerra, sierano qui insediate dandosi all’agricoltura: quasi tutte queste genti conservano i nomi dei gruppi di origine. La popolazione è numerosissima, molto fitte le case, abbastanza simili alle abitazioni dei Galli, elevato il numero dei capi di bestiame. Come denaro usano rame o monete d’oro, oppure, in sostituzione, sbarrette di ferro di un determinato peso. Le regioni dell’interno sono ricche di stagno, sulla costa si trova ferro, ma in piccola quantità; usano rame importato. Ci sono alberi d’ogni genere, come in Gallia, tranne faggi e abeti. La loro religione vieta di mangiare lepri, galline e oche, animali che essi, comunque, allevano per proprio piacere. Il clima è più temperato che in Gallia, il freddo meno intenso.

Pianto antico

Poesie scelte: GIOSUE’ CARDUCCI, Pianto antico, 1871 (in Rime nuove, 1887).

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

A spasso per Roma con Properzio

Elegia IV.1

Analisi e lettura metrica

Commento

qui (pp. 43-46)

“hoc, quodcumque uides, hospes, qua maxima Roma est,
ante Phrygem Aenean collis et herba fuit;
atque ubi Nauali stant sacra Palatia Phoebo,
Euandri profugae concubuere boues.
fictilibus creuere deis haec aurea templa,
nec fuit opprobrio facta sine arte casa;
Tarpeiusque pater nuda de rupe tonabat,
et Tiberis nostris aduena bubus erat.
qua gradibus domus ista Remi se sustulit, olim
unus erat fratrum maxima regna focus.
curia, praetexto quae nunc nitet alta senatu,
pellitos habuit, rustica corda, Patres.
bucina cogebat priscos ad uerba Quiritis:
centum illi in prato saepe senatus erat.
nec sinuosa cauo pendebant uela theatro,
pulpita sollemnis non oluere crocos.
nulli cura fuit externos quaerere diuos,
cum tremeret patrio pendula turba sacro,
annuaque accenso celebrante Parilia faeno,
qualia nunc curto lustra nouantur equo.
Vesta coronatis pauper gaudebat asellis,
ducebant macrae uilia sacra boues.
parua saginati lustrabant compita porci,
pastor et ad calamos exta litabat ouis.
uerbera pellitus saetosa mouebat arator,
unde licens Fabius sacra Lupercus habet.
nec rudis infestis miles radiabat in armis:
miscebant usta proelia nuda sude.
prima galeritus posuit praetoria Lycmon,
magnaque pars Tatio rerum erat inter ouis.
hinc Tities Ramnesque uiri Luceresque Soloni,
quattuor hinc albos Romulus egit equos.
quippe suburbanae parua minus urbe Bouillae
et, qui nunc nulli, maxima turba Gabi.
et stetit Alba potens, albae suis omine nata,
ac tibi Fidenas longa erat isse uia.
nil patrium nisi nomen habet Romanus alumnus:
sanguinis altricem non pudet esse lupam.
Tutto quello che vedi, straniero, dove l’immensa Roma s’estende,
prima del frigio Enea, erano colli ed erbose distese;
e dove s’erge il sacro Palatino con Apollo navale
s’adagiarono le giovenche del profugo Evandro.
Per gli dei d’argilla crebbero questi templi d’oro
e una capanna senz’arte costruita non fu vergogna.
Tuonava da una nuda rupe il padre Tarpeio,
e ai nostri buoi era straniero il Tevere.
Ove sorse sui gradini questa splendida casa di Remo, un tempo
sorgeva solo un focolare, unico regno dei due fratelli.
E la Curia, che ora splende, solenne del senato pretestato,
ebbe un tempo rustici senatori, coperti di pelli.
li corno pastorale riuniva a consiglio gli antichi Quiriti:
spesso, riuniti in un prato, cento di loro erano il senato.
Né sulla cavea dei teatri pendevano veli sinuosi,
né profumava la scena di croco sontuoso.
Nessuno si curava di cercare divinità straniere,
ai patri riti oscillava sospesa una folla,
ma di celebrare le Parilie con il fieno acceso, come ancor oggi
si rinnova il rito lustrale col cavallo dalla coda mozza.
Una povera Vesta s’allietava d’asinelli incoronati,
magre giovenche recavano umili arredi.
Con maiali ingrassati si purificavano piccoli incroci
il pastore al suono dello zufolo offriva viscere di pecora.
li contadino vestito di pelli agitava la frusta di setola,
donde ricava il suo rito il licenzioso Luperco dei Fabi.
I soldati non brillavano in armi rilucenti:
intrecciavano lotte con pali esposti al fuoco.
Lucumone6 dall’elmo di pelle pose la prima tenda di generale,
la gran parte dei beni di Tazio erano le pecore,
da qui discesero i Tiziensi, i Ramnensi e i solonii Luceri,
da qui Romolo guidò nel trionfo quattro candidi cavalli.
Quando Roma era piccola, più distava dalla cita? Boville
e Gabi, che più non conta, era allora città popolosa.
Stava Alba Longa potente, sorta dal presagio d’una scrofa bianca,
e se andavi a Fidene, era lunga la strada.
I Romani di ora nulla hanno dei padri, se non il nome,
non è vergogna che una lupa sia stata nutrice del loro sangue.
Qui con miglior sorte, o Troia, inviasti i tuoi Penati,
con quale grande auspicio qui giunse la flotta troiana!
Già bene promettevano i presagi, a lei non fece danno
il ventre spalancato del cavallo di legno,
quando il trepido padre s’appese alle spalle del figlio,
e la fiamma non os? bruciare quegli omeri pii.
Vennero poi i Decii, e le scuri di Bruto,
Venere stessa port? le armi del suo Cesare,
reggendo la schiera vittoriosa di Troia risorgente.
Felice, o Iulo, la terra che accolse i tuoi d?i,
se il tripode dell’invasata Sibilla d’Averno
disse che i campi andavano purificati col sangue di Remo,
o se il vaticinio della vergine priamide, tardi creduto,
sul capo longevo di Priamo, risult? verace:
? Volgete il cavallo, o Danai, la vittoria ? male! La terra di Troia
vivr?, e Giove a queste ceneri darà la vittoria?.
O lupa di Marte, ottima nutrice della nostra potenza,
quali crebbero le nostre mura col tuo latte!

Catilina e Cicerone

(1) Quo usque tandem abutere , Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste
tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia ? Nihilne te nocturnum
praesidium Palati , nihil urbis vigiliae , nihil timor populi, nihil concursus bonorum
omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus , nihil horum ora voltusque
moverunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia
teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima , quid superiore nocte egeris, ubi
fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris ? (2)
O tempora, o mores ! Senatus haec intellegit. Consul videt; hic tamen vivit. Vivit ? Immo
vero etiam in senatum venit, fit publici consilii particeps, notat et designat oculis ad caedem
unum quemque nostrum. Nos autem fortes viri satis facere rei publicae videmur, si
istius furorem ac tela vitemus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem
oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos [omnes iam diu] machinaris. (3) An vero vir
amplissumus, P. Scipio , pontifex maximus, Ti. Gracchum mediocriter labefactantem
statum rei publicae privatus interfecit; Catilinam orbem terrae caede atque incendiis
vastare cupientem nos consules perferemus? Nam illa nimis antiqua praetereo, quod C.
Servilius Ahala Sp. Maelium novis rebus studentem manu sua occidit. Fuit, fuit ista
quondam in hac re publica virtus, ut viri fortes acrioribus suppliciis civem perniciosum
quam acerbissimum hostem coercerent. Habemus senatus consultum in te, Catilina,
vehemens et grave, non deest rei publicae consilium neque auctoritas huius ordinis; nos,
nos , dico aperte, consules desumus.
(1) Fino a che punto abuserai, o Catilina, della nostra pazienza? Quanto a lungo questo
tuo furore si prenderà gioco di noi? Fino a che punto arriverà la sfrontatezza sfrenata?
Non ti turbarono per niente il presidio notturno del Palatino, per niente le sentinelle
notturne della città, per niente il timore del popolo, per niente l’affluenza di tutti gli onesti,
per niente questo protettissimo luogo per tenere la riunione del senato, per niente la bocca
e il volto di questi? Non senti che i tuoi piani sono svelati, non vedi che la tua congiura,
conosciuta già da tutti questi, è tenuta sotto controllo? Chi di noi ritieni che ignori che
cosa hai fatto la notte scorsa, che cosa in quella precedente, dove sei stato, chi hai
convocato, quale decisione hai preso? (2) O tempi, o costumi! Il senato comprende
queste cose. Il console le vede; questo tuttavia vive. Vive? Anzi, viene anche in senato,
diventa partecipe delle decisioni pubbliche, annota e designa con gli occhi ognuno di noi
per la strage. Invece sembra che noi, uomini forti, facciamo abbastanza per lo stato, se
evitiamo il furore e le frecce di costui. A morte te, o Catilina; era opportuno che per ordine
del console già prima fossi condotto, contro di te era opportuno che fosse portata quella
rovina che tu progetti da tempo contro tutti noi. (3) Ma in verità un uomo magnificentissimo,
Publio Scipione, pontefice massimo, da privato cittadino uccise Tiberio Gracco, che aveva
danneggiato solo leggermente la condizione dello stato; noi
consoli sopporteremo Catilina, che desidera devastare il mondo con la strage e gli
incendi? Infatti io trascuro quegli eventi troppo antichi, ovvero che Caio Servilio Ahala
uccise di sua mano Spurio Melio che desiderava la rivoluzione. Ci fu, ci fu un tempo
all’interno di questo Stato una virtù tale che gli uomini forti punivano un cittadino dannoso con pene più dure di un nemico durissimo. Abbiamo un senatoconsulto contro dite, o Catilina, forte e autorevole, non manca allo stato il consiglio e l’autorevolezza di
questo ordine. Noi, noi – lo dico apertamente – noi consoli manchiamo.